Le associazioni tra alessitimia e deficit della mentalizzazione hanno condotto all’ipotesi che ci sia uno stretto rapporto tra questi aspetti e che l’alessitimia rappresenti un tratto comune nei soggetti che somatizzano in quanto funga da “barriera” contro i ricordi emotivamente dolorosi.

Nelle ricerche condotte da Spitz è emerso che le precoci deprivazioni affettive procuravano gravi ritardi allo sviluppo intellettivo, con effetti sullo sviluppo del linguaggio della deambulazione, dell’alimentazione ecc.

Le carenze affettive e le frustrazioni che il bambino si trova a vivere precocemente hanno ripercussioni sull’evoluzione dello psichismo. Pertanto, le vicissitudini e le qualità della relazione madre/bambino nei primi mesi di vita sono di estrema importanza per il futuro sviluppo psichico del bambino.

Gli studi sull’alessitimia hanno spostato l’attenzione dai conflitti pulsionali, ritenuti da Freud alla base delle nevrosi, alla qualità della relazione tra madre e bambino nei primi mesi di vita.

Il funzionamento adeguato di una personalità dipende dal livello di mentalizzazione raggiunto, quindi dallo sviluppo dell’attività di pensiero e delle capacità simboliche.

Attraverso l’analisi di bambini e quella di adulti affetti da gravi disturbi mentali si ebbero sempre più dati su come le esperienze relazionali nei primi due anni di vita siano da considerarsi fondamentali per la prevenzione o lo sviluppo delle più gravi malattie psichiche.

Già nella vita intrauterina il feto vive esperienze somatiche, pur non avendo una rappresentazione della propria immagine corporea e della propria individualità.

Una presenza materna adeguata diventa quindi necessaria per uno sviluppo sano della percezione di sé come corpo e in generale per il raggiungimento di un valido equilibrio nello sviluppo psichico.

E’ importante, per il bambino, potersi appoggiare alla figura materna, non solo fisicamente ma anche mentalmente. Nel momento in cui la madre riuscirà a comprendere i reali bisogni del proprio bambino potrà rendere tollerabili le frustrazioni a cui può andare incontro nel corso dello sviluppo. Ma se il narcisismo materno non svolge una funzione d’appoggio adeguata le tensioni non potranno essere riconosciute e quindi mentalizzate.

Risulta fondamentale dunque sottolineare il ruolo della qualità affettiva e relazionale che il bambino sperimenta nei primissimi anni di vita.

La psicoanalisi, infatti,  ha stabilito l’importanza della relazione oggettuale e ha permesso di capire l’origine dei disturbi partendo dalla relazione del soggetto col suo ambiente.

La malattia viene definita come il risultato di un’impossibilità di accedere nel campo della mentalizzazione, della rappresentazione e della qualificazione emotiva dell’esperienza.

Alcune donne, infatti, non possono rassegnarsi ad abbandonare la relazione simbiotica con il proprio figlio. I loro bisogni possono così interferire con quelli del bambino impedendogli di raggiungere una reale autonomia e favorendo lo sviluppo di un Io debole con residui di autismo e di simbiosi non risolti.

Un compito importante della madre è quello di stimolare il proprio piccolo in certe circostanze e di tranquillizzarlo in altre. L’atteggiamento materno sembra perciò svolgere una importante funzione di regolatore biologico e comportamentale.

La scoperta dell’importanza delle emozioni come fattori di motivazione e di regolazione omeostatica apre nuove prospettive nell’interpretazione dei fenomeni descritti come pensiero operatorio o alessitimia.

Questi potrebbero essere ricondotti a un difettoso sviluppo psichico conseguente ad alterazioni della comunicazione emotiva tra madre e bambino.

Come già menzionato, viene sottolineata l’importanza, delle relazioni oggettuali.  Un oggetto, per la psicoanalisi, è tutto ciò che ha un significato per l’individuo e il termine relazione d’oggetto si riferisce sia al rapporto con gli oggetti concreti della realtà esterna, che con le loro rappresentazioni nel nostro mondo interno.

Questo elaborato vuole evidenziare come le inadeguate relazioni oggettuali, il deficit della mentalizzazione e l’uso dell’alessitimia siano in interazione gli uni con gli altri e rappresentino le condizioni favorevoli all’insorgere delle malattie psichiatriche.

Il costrutto dell’alessitimia è nato più di quaranta anni fa, anche se, solo recentemente ha suscitato maggiore interesse tra i teorici e i ricercatori che si occupano di emozioni.

Il termine “alessitimia”, derivante dal greco (a=mancanza; lexis=parola; thymos=emozione), letteralmente mancanza di parole per le emozioni, fu coniato da Sifneos per indicare una costellazione di caratteristiche cognitive ed oggettive; infatti, si notò che molti pazienti affetti da disturbi psicosomatici classici presentavano una marcata difficoltà ad esprimere i propri sentimenti soggettivi, uno stile comunicativo caratterizzato da una estrema attenzione a dettagli minimi negli eventi esterni e da una assenza o forte riduzione di fantasie.

Gli alessitimici conoscono poco sui propri sentimenti e in molti casi sono incapaci di collegarli con ricordi, fantasie o situazioni specifiche.

Se alla base dell’alessitimia ci sono delle difficoltà nella capacità di elaborare e regolare le emozioni, non sorprende il fatto che essa sia stata concettualizzata come un possibile fattore di rischio per molti disturbi somatici e psichiatrici che hanno a che fare con problemi di regolazione affettiva.

L’alessitimia, quindi, non deve essere considerata una diagnosi, bensì un tratto stabile di personalità che interagisce con gli eventi stressanti predisponendo in modo aspecifico verso la somatizzazione e lo sviluppo di malattie.

Nel corso dell’età evolutiva non è corretto parlare di alessitimia ma piuttosto di “tratti alessitimici” predisponenti allo sviluppo dell’alessitimia in età successive, poiché le capacità cognitive e quelle di regolazione interpersonale non hanno ancora raggiunto uno sviluppo completo.

Lo stile comunicativo non simbolico dei pazienti alessitimici fornisce pochi derivati analizzabili e suscita rapidamente sentimenti controtransferali di monotonia, noia, frustrazione e sonnolenza.

Molti ricercatori concordano nel ritenere che l’alessitimia rifletta un deficit della capacità di simbolizzare le emozioni. Queste persone sono intrappolate da un pensiero concreto e dall’attenzione per i dettagli minuziosi degli eventi esterni.

In sintesi, gli studi hanno evidenziato come l’alessitimia impedisca l’accesso alla mentalizzazione. Infatti, nei soggetti alessitimici emerge la difficoltà a mentalizzare i propri stati mentali interni che li porta a regolare le proprie emozioni attraverso atti impulsivi o comportamenti impulsivi. Si è visto che le emozioni non metabolizzate predispongono all’insorgere di disturbi somatici.

Concludendo, possiamo affermare che i soggetti alessitimici non devono essere considerati come individui senza emozioni, ma occorre sottolineare come il deficit nella elaborazione delle emozioni determini in queste persone lo sviluppo di stati affettivi indifferenziati e poco regolati.